Pandemia 1836 by Gigi di Fiore

Pandemia 1836 by Gigi di Fiore

autore:Gigi di Fiore
La lingua: ita
Format: epub
editore: UTET


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Per le strade di Napoli

I Napoletani generalmente per indole amano la pulitezza, ma la gente del popolo non ha sempre le abitudini necessarie a governarsi pulitamente, e spesso da molti credesi che non possa ciò ottenersi senza avere in abbondanza gli agi e i comodi della vita. Noi avvisiamo poter ben sostenere che molte cose, e le più essenziali, possono anche da’ meno agiati conseguirsi sol che adoprino maggior cura nell’esecuzione degli antichi e recenti ordinamenti municipali con somma sapienza dettati, e non sempre con pari diligenza eseguiti.

Annali civili del Regno delle Due Sicilie,

Alcune considerazioni di pubblica igiene

fatte nell’apparir del colera in Italia,

1835

Morti nelle case, morti negli ospedali. Il contagio correva nei luoghi più affollati. E all’ospedale Santa Maria di Loreto il direttore Salvatore De Renzi individuò almeno due focolai di diffusione da osservare. Erano naturalmente le carceri e il maestoso Albergo dei Poveri, voluto da Carlo di Borbone bisnonno del re, destinato all’assistenza e al ricovero dei senzatetto e delle centinaia di disperati senza lavoro di Napoli. Un centro di accoglienza per gli ultimi della capitale, esteso per ben 103 000 metri quadrati. Migliaia di «poveri, vagabondi, mendicanti e oziosi» venivano accolti in quel luogo e sarebbe stato assai difficile che un’epidemia contagiosa non invadesse quelle stanze. De Renzi aveva annotato le sue osservazioni sui ricoveri nel suo ospedale, ricordando che «dal Real Albergo dei Poveri gli infermi arrivarono quasi tutti in pessimo stato, alcuni erano gravi di anni di infermità e da pochi giorni raccolti sulle strade ove andavano mendicando, altri occultavano studiosamente i primi sintomi del male».1

Negli ospizi e negli edifici di ricovero pubblici era ospitata gente raccolta per strada che non sapeva cosa fosse lavarsi e a volte non mangiava da giorni. Uomini e donne dalla vita precaria, senza lavoro stabile, che dovevano arrangiarsi per sopravvivere. Erano i volti della famosa plebe disperata della capitale, su cui il colera si accanì. Nei primi giorni dell’epidemia, solo al Santa Maria di Loreto erano arrivati 260 uomini e 28 donne ospitati nel Real Albergo dei Poveri. Ma tra i ricoverati della prima ora c’erano stati anche 16 uomini in arrivo dall’ospizio dei Ciechi e 41 donne dall’ospizio di Santa Maria della Fede. Erano stati tre importanti focolai d’infezione, almeno nei primi giorni dell’epidemia. Il morbo partiva dalla strada, poi aveva gioco facile a infettare tra le mura degli ospizi pubblici, presto diventati ricettacoli di morte come lo furono le prigioni, da cui all’ospedale diretto da De Renzi erano arrivati, alla fine di ottobre, 67 uomini e 31 donne contagiati e in condizioni disperate.2

Non era possibile chiudere gli ospizi, bisognava però stare più attenti, seguendo le istruzioni della Commissione sanitaria centrale. De Renzi aveva condiviso quelle regole di buon senso e aveva pure cercato di verificare se e come la gente le rispettava; come far capire a chi viveva per strada, o era ammassato a dormire in tuguri a volte anche con un mulo o con le galline, in che modo si sarebbe dovuto comportare per non ammalarsi di colera.



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